Come e perché il fenomeno Jonathan Galindo sembra proprio essere l’ultima leggenda metropolitana del web
Martedì 29 settembre, poco dopo la mezzanotte, un bambino di 11 anni si è ucciso lanciandosi dal balcone di casa sua, al decimo piano di un palazzo di Napoli.
Il giorno dopo tutti i quotidiani locali e nazionali hanno riportato la notizia e hanno iniziato anche a parlare di uno strano messaggio che avrebbe inviato il bambino alla madre subito prima di buttarsi in cui si fa riferimento un “uomo nero” o a un “uomo col cappuccio”. E hanno iniziato anche a parlare di una strana sfida sul web, forse un adescamento. Un profilo social con il volto di uomo travestito da cane, simile a Pippo, compare di Topolino, ma con una sfumatura più inquietante: Jonathan Galindo.
A questo punto tutti i media nazionali hanno iniziato ad occuparsi del fenomeno Galindo, della sua presunta diffusione, sostenendo che il presunto messaggio inviato alla madre prima di suicidarsi possa essere stato l’ultima prova estrema della challenge di Jonathan Galindo, dietro il cui profilo si nasconderebbe un adulto che adesca in Rete minori e li coinvolge in giochi all’apparenza innocui, ma che in realtà li istigano progressivamente al suicidio.
Controllando su Facebook e su Instagram si trovano numerosi profili utente collegati al nome “Jonathan Galindo”, e tutti con la stessa immagine profilo di un volto dalle sembianze simili a quelle di Pippo, il personaggio della Disney, ma decisamente più umanizzato e più spaventoso. In realtà questo personaggi fu ideato, nel 2012-2013, da un artista e videomaker americano, Dusky Sam Cat o Samuel Canini, che di recente è intervenuto direttamente sul suo account Twitter , in cui sono presenti molte altre sue creazioni, per spiegare meglio le origini del personaggio.

A questo punto la vicenda inizia ad apparire molto simile a quella della Blue Whale, e prima ancora della #MomoChallenge ossia leggende urbane, “creepypasta” in gergo, di cui non si riesce a mai a tracciare un confine preciso.
Sul sito del CICAP si può leggere un interessante articolo che risale alla presunta origine del mistero di Jonathan Galindo, la cui immagine sarebbe stata utilizzata nel lo scorso giugno dall’influencer messicano Carlos Name. L’influencer ha raccontato sul suo profilo di aver visto una figura appostata fuori da casa sua, di notte. Di aver sentito strani rumori e che poi l’uomo abbia fatto irruzione nella sua abitazione. Nei video si vede un personaggio in pantaloni corti e camicia, con la stessa maschera ideata da Dusky Sam nel 2012. Secondo la versione dell’autore e dei numerosi commenti dei followers, la strana figura viene descritta come un uomo di circa trent’anni affetto da problemi mentali noto per aver molestato donne e bambini. Questa persona entrerebbe in contatto con le sue vittime tramite Facebook, per poi seguirle fino a casa loro.
@carlos_name Intrusos a las 4 de la mañana.
♬ original sound – Carlos Name
Da giugno in poi la figura di Jonathan Galindo ha iniziato a essere famosa e si sono diffusi gli appelli a “stare in guardia”e a non accettare amicizie da profili con questo nome, prima in Sudamerica, poi negli Stati Uniti, poi anche da noi. Nel nostro Paese sembra affermarsi in particolar modo la versione della leggenda metropolitana secondo cui con il nickname di Jonathan Galindo si identifichi una rete di utenti che contatta minori e li coinvolge in un cerchio perverso di sfide, di rituali di iniziazione quasi, progressivamente sempre più pericolosi da compiere, tra cui procurarsi tagli e lesioni per esempio.
E nonostante le indagini non abbiano ancora restituito uno scenario chiaro di quello che è successo nella vicenda di Napoli, numerosi media italiani hanno usato titoli molto forti: Il folle gioco social che spinge ad uccidersi, Il gioco social che spinge i giovani all’autolesionismo, Chi è Jonathan Galindo, l’orrore che terrorizza i bambini e li spinge a suicidarsi, Suicida dal balcone a 11 anni. L’incubo delle sfide via social o ancora Il nuovo fenomeno virtuale. Questi toni sensazionalistici fanno però ricordare facilmente quelli usati per il caso Blue Whale o Momo, entrambe rilanciate come pericolosissime sfide della rete in cui potevano incappare i più giovani e che si sono poi rilevate creepypasta, leggende metropolitane digitale, una di quelle tante storie che mischiano horror e web di cui non si riescono mai a tracciare bene i confini.

Ma questi toni sensazionalistici e l’attenzione eccessiva sul “nuovo incubo della rete” rischiano però di generare un effetto paradossale: alimentare la curiosità dei ragazzi, rischiando anche di scatenare fenomeni di emulazione, con persone che si divertono a impersonare il nuovo spauracchio di cui tutti parlano, come accaduto appunto per gli altri due fenomeni.
Inoltre si chiede agli adulti, ai genitori, di stare sull’attenti di fonte a questa minaccia, come se non dovessero esserlo anche prima. Internet e i social possono essere si uno strumento utile e divertente per tutti noi, ma possono essere anche molto pericolosi soprattutto per chi, come i bambini, può essere facilmente manipolabile. Facebook e Instagram prevedono come età minima per l’iscrizione 13 anni, così come TikTok. Ma spesso ai bambini questo non interessa e se ci sono degli adulti pronti ad aggirare l’ostacolo il gioco è fatto!

L’esperta di pedagogia Paola Cosolo descrive al giornale Open un quadro molto veritierio della situazione: «Esistono linee guida per i social e certificazioni per i videogiochi. Tutte cose che vengono ignorate sistematicamente da genitori che per la paura di passare come troppo autoritari non controllano cosa fanno i loro figli in rete e i siti su cui navigano». Il paragone, secondo Cosolo, è semplice: «Invito tutti i genitori a trattare il web come una lavatrice: leggete le istruzioni prima di usarlo o prima di farlo usare agli altri».
Gli “sconosciuti” a cui ci hanno insegnato a non rivolgere la parola da bambini oggi si trovano online e spesso hanno delle sembianze rassicuranti.
Ancora una volta, il problema non è lo strumento ma l’uso che se ne fa e soprattutto chi lo usa. E’ come dare, ad esempio, un martello a un bambino di 3 anni e aspettarsi che lo usi nel modo corretto e che non si faccia male, chi lo farebbe? La tecnologia è a disposizione di tutti, ma bisogna sapere come funziona e bisogna saperla usare per non farsi male. In ogni scuola bisognerebbe inserire delle lezioni che spieghino ai ragazzi, ma anche ai loro genitori, come funziona la rete, i suoi meccanismi nascosti, il suo potenziale (che non dovrebbe ridursi ai social) ma anche i suoi numerosi pericoli.